martedì 27 dicembre 2011

38 anni e 2.000 km


Sì, come sempre anche questo 27 dicembre non si è verificato il prodigio per cui invece di invecchiare di un anno ringiovanisco di 10. Quindi eccomi qui a festeggiare i miei 38, anche se ne avevo 19 solo un paio di anni fa.

Ecco alcuni dati salienti della mia vita finora:

- Ho passato altrettanto tempo insieme a mio marito di quanto ne abbia vissuto prima di conoscerlo. Da oggi in poi la bilancia comincia a pendere inesorabilmente dall'altra parte. Vi lascio intuire cosa voglia dire invecchiare accanto a qualcuno che ti ha dato il primo bacio quanto tu facevi ancora i compiti. Per fortuna, come abbiamo stabilito con la mia amica Silvia, io sono una "late bloomer", una delle poche fortunate che sono migliorate con gli anni. Questo probabilmente significa solo che da adolescente ero un po' racchiotta e comunque temo di aver raggiunto il massimo di miglioramento possibile, perciò tra un po' torno a peggiorare.

- Quasi 6 anni fa ho smesso di fumare, poco tempo dopo ho cominciato a correre. Ad aprile del 2008 mi sono iscritta a un sito dove registro tutte le corse fatte (lo so, non dite niente, tengo anche una lista dei libri che leggo e faccio altre nerdaggini simili). Oggi il totale della distanza percorsa ha raggiunto la strabiliante cifra di 2004 km. Ci sono voluti 237 allenamenti per una durata globale di 205 ore, che mi hanno consentito di bruciare 120mila calorie. E di reincamerarne altrettante a tavola dal momento che la bilancia segna sempre la stessa cifra (che qui non scriverò, sapete già i miei anni, non esageriamo).

- Anche quest'anno tra i propositi per il successivo c'è quello di leggere di più. Questa è una cosa che non cambierà mai e dipende dal fatto che un anno, in quinta liceo, ho letto 59 libri e non mi rassegno al fatto che ciò non accadrà più. Ho una pila di 20 tomi pronta sul comodino e un Kindle nuovo di pacca che aspetta solo di essere caricato a dovere: ci riuscirò a battere quella racchia secchiona.

- Sono stata una pavida ragazzetta che si vergognava di chiedere un'informazione per strada o di far valere i propri diritti, se ciò comportava di dover discutere con qualcuno. Ecco, those days are gone. Sono diventata un'attaccabrighe telefonica e se capiterete a casa mia in un pomeriggio qualunque potrà succedervi di trovarmi a vagare di stanza in stanza con gli occhi strabuzzati mentre parlo da sola alzando progressivamente la voce fino ad urlare. In realtà se guardate meglio scoprirete che sono al telefono con il call center di Fastweb e sto minacciando l'operatore AF709Q di disdire l'abbonamento, denunciare l'azienda, metter su una class action e organizzare una spedizione punitiva con un migliaio di altri utenti incazzati se non mi mandano subito un tecnico a casa. Tranquilli, è solo la quinta della serie di 10 telefonate che sarò costretta a fare prima che qualcuno si degni di risolvere il mio problema. Cose da fare nel 2012: dare la disdetta a Fastweb.

- In pratica mi sto trasformando in mia madre: parlo sempre più spesso in napoletano (ci sono concetti e sentimenti che proprio non possono essere espressi in un'altra lingua), sbraito al telefono con chi non mi dà ragione all'istante, a volte quando torno a casa dico a mio marito: là fuori è una giungla. Ah, e continuo a non saper cucinare.

- Nonostante tutto ho deciso di sorridere. La mezza età incalza, la pelle comincia a risentire della forza di gravità, le responsabilità pressano, la crisi abbaia e a volte morde pure. Tutto ciò ha un inevitabile influsso sul mio umore. Di recente mi sono resa conto che sono troppo spesso arrabbiata: per la scuola di mio figlio che va a rotoli, perché tocca lottare per ottenere ciò che è ovviamente un diritto, perché c'è chi lavora troppo e chi è a spasso e non riesce a campare, perché solo ieri era lunedì e adesso è già domenica. Sì, è tutto vero, ma ho capito che chi sorride spesso di solito vive meglio e, udite udite, ha figli sorridenti.

martedì 22 novembre 2011

Cose che non dovreste mai fare in un periodo di crisi economica


Ho cambiato computer perché quello che avevo impiegava a eseguire un semplice comando, come aprire il sito di un giornale online, più tempo di quel che mi ci vuole per aprire la porta di casa, scendere sei piani a piedi e andare all'edicola all'angolo a comprarne una copia cartacea.

Sono contenta di avergli detto addio, a lui e al suo processore dual core che appena 5 anni fa era il non plus ultra della tecnologia e oggi il commesso della Fnac non sa manco che sia mai esistito. Lui e il rantolo che emetteva ogni volta che andava in surriscaldamento, ovvero circa 2 minuti e mezzo dopo l'accensione, e quindi molto prima di rendere disponibile al povero utente anche solo lo sfondo della scrivania. Lui e il pentolino d'acqua che potevi mettere a bollire per il tè delle 5 accanto allo sfiato d'aria rovente di quella che forse era stata immaginata come una ventola ma in realtà era un termosifone portatile.

Il nuovo computer è la copia conforme del precedente, solo prodotto 5 anni più tardi, quindi so già che ci metterà non più di 3 anni per diventare irrimediabilmente obsoleto. Cerco di non affezionarmici, ma intanto ho scaricato nel suo capiente hard disk tutta la mia vita, incluse cose che manco io sapevo, ma lui adesso sì. Tipo quanto mi hanno pagato il primo pezzo che ho scritto come free-lance, foto di mio marito con l'apparecchio ai denti, articoli di giornale salvati per leggerli con calma e custoditi in file mai riaperti dal 1998 eccetera.

Tra le varie funzioni che tocca reimpostare c'è quella dello screensaver. Ho già dimenticato cosa avessi scelto sul mio vecchio computer, ma per questo nuovo mi sono fatta tentare dall'opzione Salvaschermo Google, che in pratica pesca a caso tra le cartelle di foto salvate sull'hard disk una serie di immagini che si alternano sullo schermo per qualche minuto, finché poi non diventa tutto nero in attesa di input esterni.

Cosa non mi è toccato rivedere in questi giorni, già di per sé duretti. Ogni tanto alzo gli occhi verso lo schermo e mi rifletto nell'immagine di una tipa che mi sembra di aver conosciuto vagamente ma in cui stento a ritrovare me stessa. Sono io con i capelli lunghi, medi, lunghi, corti, con i colpi di sole da meretrice di quella volta che la parrucchiera ha lasciato la tinta cinque minuti di troppo, con abiti improbabili, costumi da bagno che non mi capacito di aver posseduto, e tanto più indossato, occhiali da sole di ogni foggia, colore e dimensione.

Ma soprattutto sono sempre bellissima. Anche in quella foto di cui mi sono vergognata per anni perché mi faceva le occhiaie e il doppio mento in realtà sono un fiore. Sono magra, tonica, giovane, sorridente, contenta, forse perfino felice.

Mentre mi preparo per la cura Monti, sempre che ci si possa preparare a quello che ci viene presentato alternativamente come un martirio dagli ottimisti e come un tunnel senza sbocco dai meno ottimisti, e mi appresto a entrare nelle tenebre della recessione, dopo quel decennio di comatosa stagnazione che ci ha regalato Berlusconi mentre lui e i suoi si arricchivano a spese nostre, mi domando con che faccia, con quale taglio di capelli, quali meches e soprattutto che espressione del viso comparirò sul mio salvaschermo tra un paio d'anni.

Le mie foto di oggi tradiranno le ansie, le insicurezze, le preoccupazioni, la tristezza e l'amarezza, le responsabilità e, diciamolo, gli anni che mi porto sul groppone? Basterà il naturale passare del tempo a rendere la me stessa di oggi bella, in forma e contenta agli occhi invecchiati di quella che sarò? E' una di quelle domande che hanno solo risposte deprimenti.

Risposta 1. Sì, sarò talmente più vecchia e incazzosa che oggi in confronto sembro un'adolescente in gita scolastica.
Risposta 2. No, ho superato l'età in cui si è freschi e ottimisti; presto abbandonerò i 30 per non rivederli mai più. E allora "sorrisi, addio per sempre".

La chiave per salvarsi dal baratro dell'autocommiserazione è proprio nelle foto che hanno scatenato queste cupe riflessioni. Com'era rotondo mio figlio a un anno. Come abbiamo convinto mia madre a mettersi in costume da bagno a giocare a pallone con il nipotino sul prato? E' sempre più difficile distinguere tra me e mia sorella: più passa il tempo più ci assomigliamo. Mille anni fa io cantavo. Sì, da vecchi dovremmo considerare l'ipotesi di trasferirci in Corsica. Stavo bene incinta. Clic.


mercoledì 14 settembre 2011

Senza glutine


La scritta "senza glutine" ha su di me lo stesso effetto che le parole "gratis", "omaggio" e, chessò, "sesso" hanno sulla gente normale. Risuona melodiosa dentro di me e mi spinge a fare acquisti compulsivi. La leggo su un qualunque genere alimentare e devo assolutamente averlo, non riesco a frenarmi. Più o meno la stessa cosa che accade a indice e mignolo del nostro premier nelle foto ufficiali dei vertici internazionali o con altre parti del suo corpo nei sotterranei di casa sua.

Allora acchiappo il barattolo di salsa alla puttanesca, il tetrapak di zuppa di ceci alle spezie mediterranee, il secchiello con i vortici di gelato all'anacardo del Libano e mi dirigo a testa alta alla cassa. Intendiamoci è sempre rigorosamente roba che non mi serve e che non saprò come utilizzare. Agli uomini di casa non piacerà, oppure gli piacerà ma, pur non contenendo il venefico glutine, già solo il primo boccone scatenerà innumerevoli disturbi di varia natura, dal prurito alle sopracciglia fino al callo da frutti a guscio.

Una volta superata da un paio d'anni la data di scadenza, queste prelibate scorte glutino-prive trovano in genere la loro collocazione tombale sul fondo del mio secchio dell'immondizia. Quando sento dire che per le scorie radioattive non si è ancora trovato un cimitero geologico penso sempre alla mia pattumiera con un fremito di fierezza.

Oggi però sento che è stato diverso. Oggi ero al supermercato con mio figlio e ho adocchiato una confezione di pancetta dolce a dadini "senza glutine". Chi non condivide il nostro problema probabilmente non si immagina nemmeno che un prodotto come la pancetta di maiale possa contenere una proteina che deriva da frumento, grano e altri cereali. Come ci finisce lì? Non vi tedierò, ma per riassumere, i procedimenti produttivi industriali fanno sì che questo rischio ci sia. Ecco allora che il fatto che un produttore si prenda la responsabilità di garantire che la sua pancetta confezionata a dadini è senza glutine mi appare come un gesto d'amore verso la nicchia di umanità a cui appartengo.

Acchiappo la confezione, la mostro trionfante a mio figlio e subito dopo leggo la scritta "ideale per amatriciana". Già, che bella idea. Ma com'è che si fa l'Amatriciana più? Tiro fuori il telefono dalla tasca, apro il browser, cerco "ingredienti Amatriciana", compro pecorino e pelati e torno a casa con la speranza che i dadi di bacon non faranno la stessa fine delle margheritine di Fukushima.

L'intolleranza permanente al glutine colpisce una persona su 100 nel mondo. In Italia e in altri paesi, ad esempio gli Stati Uniti, le diagnosi sono in fortissima crescita. In Francia, dove ho appena trascorso due settimane in vacanza, non ne sanno niente. Non me ne capacito anche perché il paese si conferma, ogni volta che ci vado, la prova vivente di come potrebbe essere l'Italia se solo si insegnasse educazione civica a partire dall'asilo. L'impressione è che questi pazzi francesi assurdamente ci tengano al proprio paese, a mantenere le città in uno stato di decenza, a far funzionare i servizi, a curare il verde pubblico: scemate così.

Sicuramente ci sono zone di Parigi dove circolano ratti grossi come volpi, ma nel centro, una zona più estesa di molte città italiane, non c'è segno di incuria o di degrado. Per dire, al parco del Lussemburgo non c'è traccia di cacche di cani, nemmeno a cercarla col luminol. Nessun ricordino di Fido è mai stato abbandonato su quei vialetti nei secoli dei secoli.

Però se vai in una moderna metropoli, all'avanguardia su molti fronti, e ti aspetti di poter ordinare in un ristorante senza incappare nell'ingrediente proibito avrai delle brutte sorprese. Tu dici per semplificare le cose "siamo allergici alla farina" e la prima cosa che il cameriere ti porta dopo aver fatto giurin giurella di avvertire lo chef è il cestino del pane. "Non possiamo mangiare pane e pasta perché siamo allergici alla farina", specifichi al ristorante successivo. Nessun problema, a fine pasto ti arriva il sorbetto all'ananas che hai ordinato tuo malgrado, dal momento che è l'unico dolce sicuro, e conficcato nella pallina di gelato giallognolo c'è un succoso, friabile biscottone.

I francesi non ce la fanno proprio, è più forte di loro. E al supermercato la scritta che fa tintinnare di gioia la mia carta di credito non si vede che in rarissimi scaffali dedicati al cibo per gente lunatica o con antenati hippy. Accanto alle polpette di alghe e appena prima dei quarzi che curano l'insonnia.

Ho raggiunto la conclusione che, nella generale arretratezza e impreparazione sull'argomento, l'Italia sia un paese all'avanguardia. Ho trovato pizze senza glutine in paesini della Calabria dove c'era una sola pizzeria per chilometri. Spaghetti senza glutine in località dell'entroterra siciliano dove sapevano anche come cuocerli a puntino, il che è di per sé un miracolo perché la scritta "senza glutine" di solito annulla il concetto di "al dente". Ogni volta che mi sposto in Italia incappo, senza manco affannarmi particolarmente nella ricerca, in posti che offrono cibo che posso mangiare.

Ecco, se mettessimo nella vita pubblica la metà dell'impegno che mettiamo nell'offerta gastronomica, così rispettosa anche delle minoranze, penso che saremmo un paese dal quale un po' meno gente sognerebbe di fuggire.

Foto: Flickr

venerdì 8 luglio 2011

Vita al guinzaglio

L'unica parte positiva del tornare a casa dopo una vacanza in Corsica è quando scendi finalmente dal traghetto. In una domenica di luglio quello che da Bastia mi ha riportato a Genova era pieno di famiglie con figli, tanti, tantissimi figli. Anche noi ne avevamo di nostri, ma quelli degli altri, chissà come mai, si fanno sempre notare di più.

Cercando di ricacciare indietro con la forza del pensiero il mal di testa atroce che sentivo montare e fingendo di ignorare le urla belluine di bambini di età compresa dai 3 mesi ai 12 anni che sembravano provenire da ogni direzione, ho provato a gettare uno sguardo nell'abisso, senza sovrastrutture mentali, e ho avuto paura.

Orde di creature basse, sporche e ululanti tenevano alla catena esseri umani adulti dalle sembianze stravolte dalla stanchezza. A scudisciate i nanerottoli ringhianti ottenevano dai loro badanti al guinzaglio tutto ciò di cui avevano bisogno e che richiedevano a gran voce (PATATINEEEEEEEE, GELATOOOOOOOOO, CACCAAAAAAAA, CARAMELLEEEEEEEE, ANCORA PATATINEEEEEE) ma non sembravano mai paghi. La soddisfazione di ogni desiderio pareva anzi scatenarne di nuovi e aumentare il volume delle lamentele quando questi non venivano esauditi all'istante.

Ho visto nonne con la sciatica inseguire con le scarpine nipotini scalzi di 2 anni che fuggivano dalle proprie calzature come Superman dalla criptonite. Ho visto padri rivolgersi con sguardo desolato alle mogli e annunciare "L'ha fatta di nuovo", sollevando in aria, e soprattutto lontano da sé, bambini ipernutriti e piangenti che avresti detto fossero ben oltre l'età da pannolino. Ho visto esserini apparentemente inermi grattare via dalla moquette del pavimento avanzi di cibo calpestato e metterseli in bocca avidamente dietro le spalle di genitori ormai comatosi e non ho fatto nulla per impedirlo. Anzi ho proprio pensato "magari questo lo metterà fuori uso per un po' e darà il tempo a 'sti poveri cristi di riposarsi per qualche minuto".

Come è successo che siamo diventati gli schiavi dei nostri figli? Che cosa, quale colossale errore dell'educazione impartitaci dai nostri genitori ci ha condotto a questo stato di semi-libertà in cui viviamo, nel terrore di sbagliare, di non essere abbastanza servizievoli, di scatenare il pianto lacerante di coloro dei quali ci dobbiamo occupare? Come siamo passati dall'impostazione relativamente autoritaria dei nostri genitori alla sudditanza fisica e psicologica con la quale tiriamo su la nostra progenie?

Perché è il bambino a decidere se il viaggio in traghetto sarà una calma traversata di ritorno a casa o un inferno destinato ad annullare gli eventuali (ma ce ne saranno stati?) effetti benefici della vacanza? Sono convinta che per molti dei genitori che ho visto ai lavori forzati sulla Moby Wonder, il ritorno in ufficio rappresenti il riposo del guerriero, il giusto premio per la fatica disumana alla quale sono stati sottoposti in ferie. Lì forse non li frusteranno, non gli urleranno ordini nelle orecchie, e il loro capo non tratterrà il fiato fino a diventare blu nell'attesa della chiusura di quella pratica. Lì almeno saranno trattati con il rispetto e la dignità che meritano, perché sono brave persone.

Perché la principale missione dei genitori sembra essere diventata quella di non contrariare i propri figli, di non doverli mai vedere frustrati, delusi o, diononvoglia, annoiati, nemmeno per un secondo? Come siamo diventati degli sguatteri-intrattenitori e soprattutto come ne usciremo? I nostri genitori fumavano in casa, litigavano davanti a noi, e commettevano altre nefandezze del genere. Certo non ci hanno mai chiesto di suggerirgli la destinazione per le vacanza né il permesso per poter leggere il giornale in pace 10 minuti, per citare due cose che invece io faccio con mio figlio.

E in cosa consisterà la ribellione adolescenziale di questi reucci dall'ugola d'oro? E poi cosa racconteranno 'sti mocciosi tra 30 anni ai loro psicanalisti? L'unica cosa certa è che i loro genitori, se ne avranno ancora le forze, potranno finalmente godersi una vacanza in Corsica, traversata compresa.


martedì 10 maggio 2011

Il cinema italiano in sette film

Due partite

Generazione mille euro

Tutta la vita davanti

Boris - Il film

Maschi contro femmine

Benvenuti al Sud

Oggi Sposi


Perché ho visto così tanti film italiani in quest'ultimo periodo? Perché è quello che ti becchi su Sky se accendi alle nove e un quarto di sera senza aver fatto altri programmi. Boris sono andata a vederlo al cinema per celebrare i fasti della serie tv e Maschi contro femmine l'ho scaricato un giorno che probabilmente non ero in me.

Bilancio. Su 7 se ne salvano 2: Tutta la vita davanti, che infatti è di Virzì, mica si scherza, con una Sabrina Ferilli strepitosa (e sì che non la sopporto) e Boris, che non è un capolavoro ma se sei un fan non è male.

Benvenuti al Sud, che è stato un mega successo al botteghino, si fa guardare ma è di una banalità mostruosa. Lo tira su solo la Finocchiaro che, pur interpretando immancabilmente se stessa da circa 25 anni, qui in un paio di scene fa morire dal ridere. Il resto è un ritratto del Sud da cartolina che assomiglia a quelle rappresentazioni dell'Italia fatte nei cartoni animati americani degli anni 50 (gondolieri e pizzaioli, sole e serenate, avete presente?).

Due partite è un film di una noia mortale, sceneggiato da mia nonna durante un attacco di letargia. Isabella Ferrari non sa recitare, c'è bisogno di ripeterlo? La Cortellesi sa recitare, ma secondo me non per il cinema. Massironi e Buy fanno delle patetiche macchiette. L'unica brava è la Pandolfi, ma anche lei ho l'impressione che faccia sempre un po' se stessa.

Generazione mille euro dice un po' poco, anzi pochissimo. E' un po' il negativo di Tutta la vita davanti, che invece del precariato e di come lo si subisce fa un ritratto verosimile e spietato.

Oggi sposi mantiene giusto la promessa del titolo: si vedono molti matrimoni e preparazioni di matrimoni. Ogni tanto si ride, con Placido che fa il pugliese cafone, e Pannofino che fa il fratello ancora più cafone. Ma poca roba. Il finale con Pozzetto "à la Pozzetto" da anni 80 nun ze pò vedè.

Maschi contro femmine è forse il film più stolidamente maschilista che io abbia mai visto. Se riesci a dimenticartene per un attimo, e vi giuro che non è facile, hai tempo anche di accorgerti che Nancy Brilli è ormai un clone di se stessa e siccome interpreta una cinquantenne bella e finta che si è rifatta tutto, ti viene da chiederti se per la sceneggiatura si siano basati sul suo diario. La Signoris fa la bruttina stagionata: ma và? De Luigi interpreta il marito devoto che cade in tentazione perché quella cattivona della moglie ha appena partorito e non gli si concede (tranquilli, alla fine si aggiusta tutto, non era mica colpa sua poveretto, a carne è debole). Potrei continuare, perché i siparietti sono molteplici, ma qualcuno ve lo risparmio.

Nel film Boris alla fine il regista si arrende all'evidenza di avere per le mani una troupe di mentecatti e un cast di attori incapaci e ignoranti e decide che non girerà un film impegnato di denuncia sociale, ma opterà invece per un cinepanettone. In fondo la ricetta è facile: basta aggiungere tette e scoreggie. Ecco, i cinque film di cui vi ho appena parlato sono a un passo dalla soglia tette/scoreggie, e in un paio di casi l'hanno superata.

Una mia amica una volta di ritorno da una crociera sul Nilo, dove aveva passato una settimana a stretto contatto con ciurme di altri italiani, mi disse di aver finalmente capito che i film dei Vanzina sono neorealismo. In compenso quasi tutte le altre commedie italiane con il cinema hanno ben poco a che fare.

Domande esistenziali
Come funziona la popolarità degli attori? Va a ondate? C'è un reflusso? Com'è che 5 o 10 anni fa non potevi vedere un film italiano senza imbatterti in Stefano Accorsi o Maya Sansa e adesso ovunque ci sono Isabella Ragonese e Carolina Crescentini, che recita mordendosi il labbro e non c'è differenza tra quando finge di fare l'attrice cagna e quando dovrebbe recitare un ruolo credibile?
Che ne è stato di tutti gli splendidi attori che hanno fatto La meglio gioventù?
Perché il cinema lo fanno quelli della tv?
Cosa abbiamo fatto di male per meritarci Nicolas Vaporidis? Anni di Silvio Muccino non erano forse già stati una punizione sufficiente?
Alessandro Preziosi è cieco, ha una paresi o è totalmente inespressivo perché sennò gli vengono le rughe in fronte?
Bisio saprà parlare senza accento milanese?
Qual è stata la parabola che ha portato Giuseppe Cederna da Mediterraneo a Maschi contro femmine?

Commedie italiane per un po' basta. Prossimo film: Habemus papam.






martedì 29 marzo 2011

Meno fame, più felicità


In preda ai sintomi di un'influenzetta con la quale ho dato il calcio d'inizio alla primavera, e sono parole grosse dal momento che ho un piede rotto, sfoglio una rivista patinata senza fare troppa attenzione agli articoli. La difficoltà a concentrarmi sui testi paradossalmente mi svela la trama della Matrice: all'improvviso sono in grado di vedere il codice che compone questa realtà fittizia, fatta di borse di pelle di coguaro e hot pants di strass. Nella mia testa prende forma un grosso punto interrogativo. Ma perché tutte le modelle di tutti i servizi di moda e di tutte e pubblicità sembrano immancabilmente delle sopravvissute a una lunga carestia?
Okay, niente di nuovo, direte voi. E invece vi invito a riflettere per tre minuti. Sono pronta a scommettere che nessuna delle donne che leggono questa rivista si può umanamente riconoscere in questi corpi prosciugati dalla fame. Ora, non dico che i giornali di moda debbano pubblicare foto di donne brutte, per carità, e nemmeno di donne normali, come voi e me. Ci vogliono delle belle ragazze che attirino lo sguardo e valorizzino abiti e accessori per invogliarci a comprarli. Ma credevo che lo scopo di utilizzare delle modelle fosse quello di indurci all'acquisto, spinte dal desiderio di assomigliare a chi indossa abiti e sandali, bracciali e foulard, golfini e t-shirt.
Ecco, il problema nel mio caso è evidente: io non voglio assomigliare a queste sedicenni deperite, non voglio essere quel tipo di donna, in posa perennemente floscia e immusonita, con cosce dello stesso diametro delle caviglie e polsi filiformi che sembrano sul punto di fratturarsi sotto il peso di maxi-braccialetti.

Questa qui, per esempio, che digrigna i denti in copertina con le guance incavate e una prima scarsa di reggiseno che spunta dalla giacca di un tailleur, da quant'è che non fa un pasto caldo? E quest'altra, protagonista di un raffinatissimo servizio in bianco e nero, che non riesce a riempire, con le sue scarne forme, nemmeno il bermudino taglia 36 che le hanno fatto indossare? Ha la femminilità di un traliccio dell'Enel, e per costruirsela è a digiuno dai tempi delle medie.
Intendiamoci, non voglio dire che non mi piacerebbe essere più magra e più soda, e magari anche più alta e più giovane già che ci siamo, ma non vorrei essere nessuna di queste qui. E mi indispettisce dovermi immaginare come starebbe quel completo che sembra carino, addosso a una donna che dopo averlo indossato, e riempito a dovere, abbia anche la forza residua per uscire di casa e mostrarlo.

Tutto sembra enorme addosso a 'ste ragazzette tristi, come fosse fuori misura. Ecco, capite, in certe immagini sembra quasi di vedere la figlia che si prova i vestiti presi dall'armadio della mamma. Su tacconi sproporzionati, inalberando gioielli enormi che sembrano poter lasciare un segno indelebile su quella pelle così sottile, queste bambine truccate e acconciate da signore non sembrano nemmeno godersi questa innocente trasgressione. Sono quasi sempre colte nel momento in cui la noia ha preso il sopravvento. Il gioco le ha già stufate, presto dovranno cercare un altro modo di impiegare il tempo. Chiaramente la merenda non è un'opzione.



E adesso arriva l'accorato appello ai capi del meraviglioso sistema capitalistico: togliete le secche dall'aria malata dalle riviste, e magari anche dalle passerelle. Fatelo per voi, per venderci più roba; aiutateci a farvi felici. E per favore, dite alle nuove leve, si spera di sembianze umane, di sorridere, perché è questo di cui avete bisogno: sorrisi. Gli stessi che dovrebbero stamparsi sulla faccia delle donne vere, che spendono soldi veri per comprare la vostra roba.


sabato 8 gennaio 2011

D'Artagnan


E' sempre nei saldi che il capitalismo dà il peggio di sé. I negozi rimettono fuori la merce che hanno in magazzino da 5 lustri sperando di riuscire finalmente a rifilarla a qualcuno; le poche cose davvero di stagione che valga la pena comprare costano uno sproposito (e il fatto che siano scontate del 15 % suona come una presa in giro, e forse lo è), e se cerchi un paio di stivali marroni dovrai ingoiare parecchi rospi prima di poter uscire calzata da un negozio.

Avevo iniziato l'anno colma di buoni propositi. Ho ormai abbandonato da tempo la linea "dimagrire e rassodare-imparare il giapponese-segnarsi le frasi intelligenti e spacciarle come proprie alla prima occasione". L'età avanza e sto lentamente smottando verso un più pacato mix: "lenire il mal di collo-leggere libri-non stare in pigiama nei giorni di festa".

Insomma, mi accontenterei di non peggiorare, mantenendo un decoro nell'aspetto che con gli anni va curato sempre di più per ottenere sempre di meno. Quando il 2 gennaio aprendo la scarpiera ho visto gli orribili stivalacci marroni che porto ormai da quattro anni mi sono detta che per quanto abbassi la sbarra ci sono cose che non devi tollerare: andare in giro per il terzo anno di fila con stivali di cui ti vergogni è una di quelle.

Parto speranzosa il 6 gennaio alla ricerca di ciò che ho distrattamente intravisto nelle vetrine per tutto l'autunno e di cui sicuramente è avanzata un'abbondante scorta nei negozi del centro: un paio di stivali color marrone scuro. Ora non starò qui a snocciolarvi tutta la scala cromatica del marrone, dal terra di siena fino al testa di moro. Quello che so è che gli stivali che ho hanno il colore giusto e portandomeli dietro ero abbastanza sicura di poterli sostituire con una spesa ragionevole.

Come al solito non avevo fatto i conti con i tre signori che ogni anno si incontrano a giugno sulla spiaggia di un isolotto del pacifico e sorseggiando cocktail decidono cosa noialtre poverette avremo il permesso di indossare l'inverno successivo. Credo che una riunione speculare si tenga anche in gennaio in qualche segretissima località sciistica, per tirare a sorte se i bikini dovranno avere, tutti immancabilmente, il reggiseno a triangolo o a balconcino. Nelle estati in cui esce testa (triangolo, che non so se lo sapete, ma non regge un granché) io non posso acquistare costumi da bagno.

Quest'anno i tre beffardi onnipotenti dell'abbigliamento dovevano averci dato dentro con i Margarita quando sono arrivati al capitolo calzature. Come spiegare altrimenti l'improvviso nostalgico amore per i tre moschettieri che li ha colti, convincendoli a scegliere come mono-modello di stivale quello rasoterra, stretto e alto sopra il ginocchio, che può star bene solo a una stanga anoressica di 18 anni, ed è comunque portabile unicamente con mini-abiti (che non indosso dall'88) e leggings (che facevano già angoscia negli anni 80 quando io ero una ragazzina e me li potevo permettere, ma non lo sapevo, e infatti mi guardavo bene dal metterli, figuratevi ora).

"Ma non si potrebbe avere uno stivalino con un po' di tacco, tanto per dare una mano alla natura che sull'asse verticale è stata con me un po' ingenerosa?"

...bla bla bla... bla bla bla...

Cioè, se volete vi dico anche cosa hanno risposto le varie commesse a cui ho rivolto questa domanda, ma la sostanza è che lo stivale che dico io, quello che forse in qualche antro di strega, conoscendo la parola d'ordine, si poteva ancora ottenere fino all'anno scorso, queste non ce l'hanno. Nessuno ce l'ha. Non c'è proprio negli elenchi, nei cataloghi, nelle fabbriche, nemmeno nei magazzini. Donne molto più avvedute di me devono aver fatto negli anni passati ciò che mi riprometto sempre di fare ma poi non faccio mai: hanno trovato uno stivale decente e ne hanno comprate tre paia esaurendo così per sempre le scorte.

Non posso dire di aver visitato dozzine di negozi alla ricerca dello stivale che avevo in mente. Sono abbastanza vecchia e saggia per sapere quando è ora di arrendermi, tanto loro sono più forti. Ho richiamato i cani e interrotto ufficialmente le ricerche dopo essermi provata un paio di stivali: 1) davvero marroni (non arancioni, beige o grigi come quelli che in diversi posti hanno cercato di vendermi), 2) con un tacco umano (ho scoperto al decimo negozio che esisteva un piano B nella mente dei tre moschettieri della moda, ma prevedeva molte borchie e un tacco a spillo) e infine 3) che una volta infilati non mi hanno dato la sensazione di aver ficcato i piedi in due tagliole.

La missione può dirsi compiuta. Ora non mi resta che comprare un poncho. Non mi piacciono particolarmente, non li uso, non ne posseggo nemmeno uno, ma siccome li vedo in giro da almeno due o tre anni sono sicura che quest'estate Athos, Porthos e Aramis li depenneranno definitivamente dalla lista e allora, semmai un giorno me ne servisse uno, mi congratulerò con me stessa per averci pensato per tempo.

Foto: Wikimedia