venerdì 11 novembre 2016

La conta degli anni


L'età anagrafica non conta, gli anni veri sono quelli che ti senti. Avvicinandoti ai 40 però un po' di angoscia ti viene, per non parlare di quando li superi. Quest'anno credo di essere entrata nella fase di accettazione, che dopo negazione, rabbia, contrattazione e depressione conclude serenamente il ciclo psicologico del lutto che rappresenta non essere più giovani. Ognuno ha un suo monologo interiore costante e un'immagine di sé anch'essa piuttosto costante. La mia oscillava tra la me stessa di 7 anni e quella di 16. Ci sono ancora entrambe, lì da qualche parte, ma ad esse si è affiancata stabilmente una signora coi capelli tinti, la voce lievemente arrochita dagli anni e delle linee disegnate orizzontalmente sulla fronte.

Segnali dell'avvenuta metamorfosi. Alle 11 di sera ho sonno; mi piacciono i cardigan; guardo i ventenni per strada e penso "quanta roba ti tocca ancora fare"; curo i fiori in terrazzo; metto ordine per calmare l'ansia; comincia a interessarmi la cronaca locale; guardo i bambini per strada e penso "tesoro!"; davvero; di tutti i bambini sotto i 10 anni; la sera non metto mai la crema antirughe, troppo sbattimento: sarà per quello che non fa effetto; i negozi di vestiti per ragazzine mi fanno venire il mal di mare; mi piace stare in poltrona a leggere con la luce soffusa; tengo il portone aperto per gli anziani e quando mi ringraziano rispondo "s'immagini"; le ragazze mi sembrano tutte belle; mi piaccono le coppie giovani innamorate; ho amicizie ventennali; sono contenta quando nei negozi mi danno del tu; su alcuni argomenti non ho un'opinione quindi non mi esprimo.

Tristezza, rassegnazione? Quello che provo in realtà è sollievo, il fatto di invecchiare non è più una novità, quindi ha perso l'importanza che aveva fino a qualche anno fa. Adesso posso di nuovo guardare avanti serenamente, e cominciare una nuova conta, quella dell'età di mio figlio. Oggi per esempio compie 13 anni e la cosa non mi suona né incredibile né terrorizzante. Svegliandomi stamattina non ho pensato "o mio Dio sembra ieri che partorivo", perché non sembra ieri, sembrano passati proprio 13 anni. Lo guardo e non mi dico "il mio bambino è diventato un ragazzo", perché in lui ci sono ancora tutti e due (e sappiamo che ci resteranno a lungo, anche quando li raggiungerà un tizio brizzolato con la pancetta, a tempo debito) e io li conosco entrambi.

Lui cambia e cambio anche io e cambia il nostro modo di rapportarci, di stare insieme, di divertirci, ma il nostro rapporto è una costante e io non posso invecchiare ulteriormente rispetto a lui, ci separeranno sempre gli stessi anni. E io lo avrò sempre visto nascere, crescere, sbrodolarsi con la minestrina, scrivere delle effe raccapriccianti, fare le pernacchie con le ascelle e avere paura di salire sul brucomela al Luna Park, ma non glielo farò pesare. Lui mi avrà vista incacchiata come una iena per qualche sciocchezza, stanca di aspettare che si addormentasse alla sera, commossa come una mammoletta per futili motivi, troppo emozionata quando non era il caso e non me lo farà pesare.

Questa estate abbiamo guardato insieme l'intera serie di Lost e sento che si è trattato di un'esperienza fondante che ha contribuito a segnare la transizione del rapporto da mamma-bambino a persona-persona. A lui piaceva Kate, a me piaceva Sawyer e le puntate in cui non comparivano i nostri beniamini fighi le schifavamo un po'. L'ultima avvenutura nella quale ci siamo buttati ha avuto inizio una decina di giorni fa: ora lui mi dà lezioni di chitarra. Finalmente può dirmi cose come "però se non ti eserciti un po' da sola è inutile", oppure, "sì, sei bravina ma non cercare di strafare, suonala lentamente", o ancora "adesso fammi un bel DO, poi molla e adesso rifammi un bel DO". E io penso: sì quando sarà il momento sarò contenta se quest'uomo così competente parlerà con i miei medici in merito alle decisioni sul fine vita.

Un filo melodrammatica, è un'altra delle cose che sono diventata dopo i 40.

lunedì 21 ottobre 2013

Ricomincio da 3


Recentemente mi sono trovata a ponderare su 3 numeri in cui mi sono imbattuta in Rete mentre cercavo qualcos'altro.

Il primo è 13% e rappresenta la percentuale di persone nel mondo che, secondo un sondaggio Gallup, sono soddisfatte del proprio lavoro. Se anche a voi come a me sembra una fetta spaventosamente esigua della popolazione attiva mondiale, ricredetevi: siamo di fronte a un netto miglioramento rispetto all'11% registrato nel sondaggio precedente, svolto nel 2010. A fronte di questo 13% di fortunati che si sentono attivamente coinvolti nel proprio lavoro ve ne sono molti di più, per la precisione il 63%, che si dichiarano non coinvolti, ovvero indifferenti, e un bel 24% che si dichiarano "actively disengaged", che si potrebbe tradurre come attivamente disimpegnati, non inseriti, improduttivi, infelici del lavoro che fanno.
I maggiori livelli di soddisfazione si registrano negli Stati Uniti (29%) e in Australia e Nuova Zelanda (24%), i più bassi in Cina e Asia Orientale (6%). Nel mezzo ci siamo noi europei con il 14%.

Un altro numero che ha attirato la mia attenzione è 12% e rappresenta la quantità di donne americane sopra i 50 anni che, in base a uno studio appena pubblicato, è soddisfatta della propria taglia. Anche qui viene da pensare: che tristezza, questa dovrebbe essere l'età della maturità, della piena consapevolezza, quella in cui finalmente non si ha più bisogno di apparire come le modelle delle copertine per sentirsi accettate e invece la stragrande maggioranza delle donne ancor agonizza davanti allo specchio... Ma aspettate perché la situazione peggiora ancora. Anche coloro che dicono che la propria taglia corrisponde a quella che vorrebbero, spesso dichiarano di avere una variegata compilation di altri complessi, soprattutto riguardo a pancia (56,2%), viso (53,8%), e pelle (78,8%). E non è ancora finita, si scopre poi che il ricorso alla chirurgia plastica si registra in modo omogeneo sia tra le soddisfatte che tra le insoddisfatte, come a dire che anche chi ha la taglia "giusta" pensa comunque sempre di doversi migliorare.

L'ultimo numero è 5 e sono gli anni in più che ci si sentono addosso dopo aver svolto un test di memoria, anche quando lo si è superato bene. Lo ha stabilito un gruppo di scienziati che lavorano al Memory Lab dell'Università del Texas A&M intervistando 22 persone di età media intorno ai 75 anni prima di sottoporli a un test di memoria. Hanno chiesto che età si sentivano e la media delle risposte ammontava a 58 anni. Una volta finito il test, però, indipendentemente da come lo avessero svolto, i partecipanti si sentivano in media 63 anni, cioè 5 in più di prima.

Quello che ne traggo, come lavoratrice, donna, che già comincia a non ricordarsi un tubo, o più precisamente teme di cominciare a dimenticare tutto, è che l'umanità passa molto tempo a darsi la zappa sui piedi da sola. Abbiamo bisogno di aiuto per essere felici, perché lasciati a noi stessi dimostriamo di fallire la gran parte delle volte.

Foto: Flickr


domenica 11 novembre 2012

Miserabili filosofi

I vagabondi a Genova si dividono classicamente in due categorie: gli urlatori e i consumati. I primi sono quelli che strillano tutto il giorno perché sono arrabbiati neri e non c'è niente da fare.
Il pittore Maini, detto "radio" per l'inconfondibile voce gracchiante, in realtà un tetto ce l'ha e, dicono, a volte anche la sua lucidità. Ma passa la maggior parte del suo tempo perlustrando le zone di Galleria Mazzini, San Vincenzo e Stazione Principe, ed è furibondo da almeno trent'anni.
"Parassitiiiiiiii, parassiti di merdaaaaaaaaa! Guardali come camminano per strada e fanno finta di nienteee. Puttaneeeeeee!" e così via, tutto il santo giorno. La veemenza delle urla non è accompagnata da alcun gesto intimidatorio. Maini non aggredisce i passanti, li recensisce.

Poi c'è la vecchietta che da mesi sta seduta sotto i portici del Teatro Carlo Felice e che deve aver subito un brutto dramma che ha arrestato il suo tempo mentale. Passa le giornate a strillare "Io ho 43 anni!", e c'è una disperazione senza fondo in questo grido insensato. E' ovvio che tutti quelli a cui poteva interessare questa informazione, tutti quelli a cui lei lo vuole gridare in faccia non ci sono più da molto tempo, ma lei deve comunque chiarire le cose, ci tiene all'età. Dà da mangiare ai piccioni, borbotta considerazioni tra sé e sé e poi, intrappolata in un percorso circolare, riprende a urlare: "Io ho 43 anni!", e i turisti fanno il giro largo.

La coppia è quella che mi fa più male vedere in azione. Credo siano nord-europei, chissà come sono rimasti impigliati nelle maglie di una città come Genova. Lui passa il tempo a leggere a lei il giornale ad alta voce con un sorriso sornione, declama gli articoli di politica (la fonte è sempre la free-press, quindi non proprio delle analisi da think tank, ma insomma...) e poi di tanto in tanto strilla frasi in una lingua sconosciuta. A volte ho la sensazione che ce l'abbia con lei, altre volte si lamenta della società, del mondo marcio, forse del tempo. Lei ascolta, annuisce, tiene il capo chino e quando si spostano cammina tre passi dietro di lui. E' lei che va in giro a chiedere l'elemosina, sempre lei che va alla Coop a procurarsi con gli spiccioli il necessario per campare. Lui la aspetta fuori e poi la sgrida se non è soddisfatto degli acquisti.

Gli urlatori di fanno notare, sono fastidiosi, ingombranti, si prendono tutta l'attenzione. I consumati invece di attenzione non ne vogliono. Vanno in giro a raccattare cicche di sigaretta davanti all'Acquario, la notte si fanno la tana sotto i portici di Piccapietra e di giorno chiedono l'elemosina in centro senza fare troppo rumore. Non sono arrabbiati, solo sconfitti, hanno optato per la resa incondizionata e tirano a sopravvivere senza fare la morale a nessuno.

Una terza categoria si è fatta largo in tempi recenti sulle panchine della città: i sorridenti. C'è un signore marocchino che chiede gli spiccioli al semaforo in piazza Corvetto che ha sempre il sorriso stampato sulle labbra. Questo approccio gioviale paga, gli automobilisti elargiscono e lui continua a sorridere.
Poi c'è questo tizio che ai primi avvistamenti avevo scambiato per un turista. Molto abbronzato, calvo, porta un paio di occhialini tondi, indossa una specie di tuta e sta sempre dalle parti dei Magazzini del Cotone. Non ha niente del barbone, non gli ho mai visto chiedere un centesimo a nessuno. Ho capito che non è uno come voi e me perché alle 8 e mezza del mattino, quando vado a correre al Porto Antico, lui in genere si sta scolando una birra media e tutto fa supporre che il resto della giornata proceda sulle stesse note. Se beve per dimenticare la tecnica funziona a meraviglia perché ha un'aria estremamente serena.

Che cosa rende questi outsider così pacifici e quasi giulivi? Credo siano persone che si sono date pace e riescono a provare emozioni positive pur vivendo ai margini della società e spesso anzi molto al di fuori. Non sono rammaricate per i propri errori, non si vergognano della propria condizione e probabilmente hanno smesso da anni di arrovellarsi su cosa avrebbero potuto fare diversamente per evitare di trovarsi oggi nella condizione in cui sono. Non nutrono sentimenti di rivalsa, hanno capito di poter sopravvivere a modo loro nonostante la vita abbia preso una piega amara.

Campano, nonostante tutto, perché l'importante è arrivare alla fine di un altro giorno. E io non capisco se il loro pacifico tirare avanti abbassi per tutti quanti noialtri la sbarra, oppure la alzi a livelli irraggiungibili.

Foto: Flickr

lunedì 7 maggio 2012

Benvenuti nella mia spam

Un guru di internet una volta ha scritto che quel che facciamo su Facebook rappresenta ciò che vorremmo essere mentre quello che facciamo su Google rivela ciò che siamo in realtà. Tremo all'idea di quale profilo di me si potrebbe tracciare a partire dalla mia casella di posta spazzatura.

In pratica il popolo globale degli scocciatori, la confraternita dei catenari di Santantonio, i cervelloni programmati da altri cervelloni programmati da un nerd che non ha mai visto il mondo reale, hanno tutti deciso di comune accordo che io sono un uomo tra i 20 e i 40 anni, eternamente arrapato ma assai scarsamente dotato, totalmente privo di qualsivoglia amicizia femminile e quindi decisamente interessato a intraprendere rapporti, sia pure solo virtuali, con femmine nei cui nomi compaiano obbligatoriamente una X, una K, diverse H o una manciata di Y.

E come se non bastasse essere un mandrillo dalle armi spuntate, o anzi forse proprio per questo, sembro avere anche un doloroso bisogno di imitazioni di rolex, articoli di elettronica di consumo a prezzi stracciati e coupon per sedute dall'estetista (del resto la ceretta, si sa, ormai è unisex). E tra un hard disk portatile capientissimo e un allungamento garantito ("lei ne vorrà sempre di più" mi giura un benefattore scandinavo in un inglese approssimativo), non manca mai l'accredito (modesto ma succulento) proveniente da un conto corrente delle Barbados che purtroppo una banca o una società di carte di credito a me ignote non riesce a recapitarmi a causa dello smarrimento dei miei codici.

Tutti i mittenti di queste missive ovviamente sparano a caso, ma è proprio questo il punto. Sparando nel cyberspazio questo tipo di proiettili ci sono evidentemente le maggiori possibilità di colpire prima o poi una vera preda. Questo è ciò che si nasconde dietro gli schermi dei computer nei vostri uffici: uomini che vorrebbero gonfiarsi come canotti chattando con creature di nome Alexa e Karyn e non vedono l'ora di dare i propri codici per l'home banking a società offshore dai nomi impronunciabili per farsi accreditare 523 euro provenienti non si sa da chi.

Facebook, che pure di me, volendo, sa un sacco di roba, mi spamma con messaggi di tenore opposto facendo di nuovo clamorosamente cilecca. Ha capito che sono una donna (e menomale), ma questo è tutto ciò che risulta chiaro agli strateghi del marketing di Zuckerberg. Credo che a selezionare i banner pubblicitari per gli iscritti al social network sia un primate poco evoluto, oppure uno sceneggiatore di Sex & the city caduto in disgrazia.

Borse. Molte borse. Ma tutte orrende, superfirmate, (soprattutto di Alviero Martini, quelle con le mappe tipo libro di geografia delle medie) e ovviamente carissime. Scarpe, molto spesso di vernice e di colori che vanno dal blu elettrico al rosa shocking, tutte rigorosamente con tacco 12. E poi trattamenti estetici per unghie, unghie e ancora unghie e diete a volontà, oltre a yogurt che fanno fare la popò e altri coadiuvanti del dimagramento. Infine un grande classico, tutto ciò che riguarda i bambini: concorsi fotografici di foto dei frugoletti, giochi educativi, siti di shopping online per il bebè.

Ora non pretendo che dando tutti i miei dati personali, comunicando nel dettaglio i miei gusti e aggiornando almeno settimanalmente lo stato del mio umore e i mutamenti dei miei interessi Facebook sia poi in grado di farsi di me un profilo preciso, per carità. Però mi aspetterei di vedere ogni tanto una pubblicità, chessò, di libri, oppure di tablet o macchine fotografiche, o magari di abbigliamento sportivo. Macché, questi mi vogliono gattona sexy con artigli diamantati e tacco a spillo fosforescente, ma anche mammina che cuce ciripà accanto al focolare domestico nel tempo lasciato libero dal digiuno.

Che dite, meglio l'onanista impotente con l'orologio a patacca e le sopracciglia cerettate o la diva del burlesque con la mappa del Gibuti stampata sulla borsa, che "hai visto mai" potesse tornare comoda? Devo ancora decidere quale caricatura di essere umano preferisco essere.

Foto: Flickr

lunedì 23 gennaio 2012

Cibomaniaci


Tempo fa ero da Feltrinelli per dare un'occhiata ai libri per bambini insieme a mio figlio. Ho capito subito che doveva esserci qualcosa di grosso in preparazione, perché vedevo aggirarsi per il megastore una folla insolita, dal momento che non era Natale. La prima cosa che ho pensato è di essermi trovata per caso in mezzo alla presentazione di un libro di Fabio Volo. L'ho pensato perché la gente che si accalcava su per la prima rampa di scale in direzione della voce al microfono sembrava provenire direttamente dal pubblico televisivo di un reality.

Mi sbagliavo, ma non poi di molto. A presentare il suo più recente imperdibile volumetto non era l'attor-presentator-scrittor-tuttofar Volo, bensì un giovane chef, di cui giuro non ricordo il nome, affiancato da un giornalista televisivo locale, che doveva essere un suo amico d'infanzia, a giudicare da quel che i due si dicevano mandando in sollucchero la platea.

Se sapete cucinare, se vi piace farlo, se lo trovate rilassante, meglio per voi. Io non sono portata, non mi interessa granché, me ne viene voglia circa 4 o 5 volte l'anno, e i risultati sono talmente patetici anche in quelle occasioni da togliermi l'entusiasmo ogni volta per i due mesi successivi. Non mi ci impegno, è ovvio, perché diciamoci tutta la verità, a vederlo fare in tv da 'sto ragazzone poco più che adolescente, coi capelli sparati e un lieve disturbo di iperattività non sembra che ci voglia un genio per confezionare uno strudel, o per fare gli spaghetti saltati con la bottarga.

I programmi di cucina impazzano, ma basta non guardarli per non imparare assolutamente nulla. Quello che mi domando però è: in un paese dove l'obesità infantile cresce ogni anno in percentuali a due cifre, e dove metà della popolazione adulta si è inflitta almeno una dieta, probabilmente inutile, nel corso della propria vita, perché passiamo così tanto tempo a guardare gente che cucina in tv? E perché poi corriamo in mandrie a comprare l'ultimo libro di ricette di praticamente chiunque?

Quando ero bambina alla sera prima del telegiornale la mamma mi lasciava guardare su Telemontecarlo il telefilm La tata e il professore, dove una tata-strega teneva a bada i tre bambini ricchi, figli di padre vedovo. Mi piaceva un sacco. Prima, però, capitava spesso di veder finire il programma di cucina di Wilma De Angelis. Era rilassante vedere tutte quelle ciotoline dove lei, o più probabilmente uno schiavo della produzione, aveva già tagliuzzato per bene la giusta dose degli ingredienti che le sarebbero serviti per la ricetta. Mi dava l'idea che bastasse essere molto precisi per fare un buon lavoro in cucina.

Oggi ripenso a quel programma e subito mi assale una noia letale. Forse veder cucinare e basta annoia tutti, sarà per questo che gli chef televisivi odierni lo fanno ballando o scudisciando concorrenti tapini (di reality culinari, ovvio), alle prese con soufflé recalcitranti e padelle roventi. Per me non c'è musica techno né gatto a nove code che tenga: veder cucinare rimane un'esperienza noiosa almeno quanto stare ai fornelli in prima persona. Leggerne, poi, non so nemmeno immaginare in quale pozzo senza fondo di torpore potrebbe spedirmi.

E' questo quel che rimane di un paese in recessione economica e culturale da almeno vent'anni? Il cibo? Il settore culinario ha affiancato le chiappe (e forse non è un caso) nell'empireo delle glorie nazionali più rappresentate sui nostri schermi. Solo che, diversamente dalle chiappe, ha sconfinato in un settore tradizionalmente "alto" come l'editoria e se n'è subito impossessato. Nella top ten dei libri più venduti compaiono ogni settimana almeno un paio di volumi di ricette, anche 4 o 5 sotto Natale.

Anche quest'anno nelle feste ho ricevuto bottiglie di superalcolici e parecchi romanzi, segno che chi mi ama mi conosce bene: nessuno dei miei amici e parenti si è sognato di mettermi sotto l'albero la faccia di Benedetta Parodi o Antonella Clerici. Ma devo essere pronta all'eventualità che accada. Come a me è successo di regalare a mio marito il fatidico pigiama (e questo non era nemmeno il primo Natale che succedeva!), così un giorno lo vedrò presentarsi con l'amata forma di parallelepipedo sotto braccio ma, quando strapperò la carta dorata, dentro non troverò l'ultimo romanzo di Franzen o Murakami, bensì il ghigno di Gordon Ramsay che mi guarda disgustato, minacciandomi di farmi un mazzo tanto se non imparo a fare un soffritto decente. E allora capirò. Che la mia metà non è davvero rispettosa delle minoranze (mogli che non sanno cucinare) né è un vero patito del cibo semplice (tacchino ai ferri e patate bollite). E' solo stato molto paziente, ma colto dai morsi della fame ha deciso di non esserlo più.

Foto: Flickr

martedì 27 dicembre 2011

38 anni e 2.000 km


Sì, come sempre anche questo 27 dicembre non si è verificato il prodigio per cui invece di invecchiare di un anno ringiovanisco di 10. Quindi eccomi qui a festeggiare i miei 38, anche se ne avevo 19 solo un paio di anni fa.

Ecco alcuni dati salienti della mia vita finora:

- Ho passato altrettanto tempo insieme a mio marito di quanto ne abbia vissuto prima di conoscerlo. Da oggi in poi la bilancia comincia a pendere inesorabilmente dall'altra parte. Vi lascio intuire cosa voglia dire invecchiare accanto a qualcuno che ti ha dato il primo bacio quanto tu facevi ancora i compiti. Per fortuna, come abbiamo stabilito con la mia amica Silvia, io sono una "late bloomer", una delle poche fortunate che sono migliorate con gli anni. Questo probabilmente significa solo che da adolescente ero un po' racchiotta e comunque temo di aver raggiunto il massimo di miglioramento possibile, perciò tra un po' torno a peggiorare.

- Quasi 6 anni fa ho smesso di fumare, poco tempo dopo ho cominciato a correre. Ad aprile del 2008 mi sono iscritta a un sito dove registro tutte le corse fatte (lo so, non dite niente, tengo anche una lista dei libri che leggo e faccio altre nerdaggini simili). Oggi il totale della distanza percorsa ha raggiunto la strabiliante cifra di 2004 km. Ci sono voluti 237 allenamenti per una durata globale di 205 ore, che mi hanno consentito di bruciare 120mila calorie. E di reincamerarne altrettante a tavola dal momento che la bilancia segna sempre la stessa cifra (che qui non scriverò, sapete già i miei anni, non esageriamo).

- Anche quest'anno tra i propositi per il successivo c'è quello di leggere di più. Questa è una cosa che non cambierà mai e dipende dal fatto che un anno, in quinta liceo, ho letto 59 libri e non mi rassegno al fatto che ciò non accadrà più. Ho una pila di 20 tomi pronta sul comodino e un Kindle nuovo di pacca che aspetta solo di essere caricato a dovere: ci riuscirò a battere quella racchia secchiona.

- Sono stata una pavida ragazzetta che si vergognava di chiedere un'informazione per strada o di far valere i propri diritti, se ciò comportava di dover discutere con qualcuno. Ecco, those days are gone. Sono diventata un'attaccabrighe telefonica e se capiterete a casa mia in un pomeriggio qualunque potrà succedervi di trovarmi a vagare di stanza in stanza con gli occhi strabuzzati mentre parlo da sola alzando progressivamente la voce fino ad urlare. In realtà se guardate meglio scoprirete che sono al telefono con il call center di Fastweb e sto minacciando l'operatore AF709Q di disdire l'abbonamento, denunciare l'azienda, metter su una class action e organizzare una spedizione punitiva con un migliaio di altri utenti incazzati se non mi mandano subito un tecnico a casa. Tranquilli, è solo la quinta della serie di 10 telefonate che sarò costretta a fare prima che qualcuno si degni di risolvere il mio problema. Cose da fare nel 2012: dare la disdetta a Fastweb.

- In pratica mi sto trasformando in mia madre: parlo sempre più spesso in napoletano (ci sono concetti e sentimenti che proprio non possono essere espressi in un'altra lingua), sbraito al telefono con chi non mi dà ragione all'istante, a volte quando torno a casa dico a mio marito: là fuori è una giungla. Ah, e continuo a non saper cucinare.

- Nonostante tutto ho deciso di sorridere. La mezza età incalza, la pelle comincia a risentire della forza di gravità, le responsabilità pressano, la crisi abbaia e a volte morde pure. Tutto ciò ha un inevitabile influsso sul mio umore. Di recente mi sono resa conto che sono troppo spesso arrabbiata: per la scuola di mio figlio che va a rotoli, perché tocca lottare per ottenere ciò che è ovviamente un diritto, perché c'è chi lavora troppo e chi è a spasso e non riesce a campare, perché solo ieri era lunedì e adesso è già domenica. Sì, è tutto vero, ma ho capito che chi sorride spesso di solito vive meglio e, udite udite, ha figli sorridenti.

martedì 22 novembre 2011

Cose che non dovreste mai fare in un periodo di crisi economica


Ho cambiato computer perché quello che avevo impiegava a eseguire un semplice comando, come aprire il sito di un giornale online, più tempo di quel che mi ci vuole per aprire la porta di casa, scendere sei piani a piedi e andare all'edicola all'angolo a comprarne una copia cartacea.

Sono contenta di avergli detto addio, a lui e al suo processore dual core che appena 5 anni fa era il non plus ultra della tecnologia e oggi il commesso della Fnac non sa manco che sia mai esistito. Lui e il rantolo che emetteva ogni volta che andava in surriscaldamento, ovvero circa 2 minuti e mezzo dopo l'accensione, e quindi molto prima di rendere disponibile al povero utente anche solo lo sfondo della scrivania. Lui e il pentolino d'acqua che potevi mettere a bollire per il tè delle 5 accanto allo sfiato d'aria rovente di quella che forse era stata immaginata come una ventola ma in realtà era un termosifone portatile.

Il nuovo computer è la copia conforme del precedente, solo prodotto 5 anni più tardi, quindi so già che ci metterà non più di 3 anni per diventare irrimediabilmente obsoleto. Cerco di non affezionarmici, ma intanto ho scaricato nel suo capiente hard disk tutta la mia vita, incluse cose che manco io sapevo, ma lui adesso sì. Tipo quanto mi hanno pagato il primo pezzo che ho scritto come free-lance, foto di mio marito con l'apparecchio ai denti, articoli di giornale salvati per leggerli con calma e custoditi in file mai riaperti dal 1998 eccetera.

Tra le varie funzioni che tocca reimpostare c'è quella dello screensaver. Ho già dimenticato cosa avessi scelto sul mio vecchio computer, ma per questo nuovo mi sono fatta tentare dall'opzione Salvaschermo Google, che in pratica pesca a caso tra le cartelle di foto salvate sull'hard disk una serie di immagini che si alternano sullo schermo per qualche minuto, finché poi non diventa tutto nero in attesa di input esterni.

Cosa non mi è toccato rivedere in questi giorni, già di per sé duretti. Ogni tanto alzo gli occhi verso lo schermo e mi rifletto nell'immagine di una tipa che mi sembra di aver conosciuto vagamente ma in cui stento a ritrovare me stessa. Sono io con i capelli lunghi, medi, lunghi, corti, con i colpi di sole da meretrice di quella volta che la parrucchiera ha lasciato la tinta cinque minuti di troppo, con abiti improbabili, costumi da bagno che non mi capacito di aver posseduto, e tanto più indossato, occhiali da sole di ogni foggia, colore e dimensione.

Ma soprattutto sono sempre bellissima. Anche in quella foto di cui mi sono vergognata per anni perché mi faceva le occhiaie e il doppio mento in realtà sono un fiore. Sono magra, tonica, giovane, sorridente, contenta, forse perfino felice.

Mentre mi preparo per la cura Monti, sempre che ci si possa preparare a quello che ci viene presentato alternativamente come un martirio dagli ottimisti e come un tunnel senza sbocco dai meno ottimisti, e mi appresto a entrare nelle tenebre della recessione, dopo quel decennio di comatosa stagnazione che ci ha regalato Berlusconi mentre lui e i suoi si arricchivano a spese nostre, mi domando con che faccia, con quale taglio di capelli, quali meches e soprattutto che espressione del viso comparirò sul mio salvaschermo tra un paio d'anni.

Le mie foto di oggi tradiranno le ansie, le insicurezze, le preoccupazioni, la tristezza e l'amarezza, le responsabilità e, diciamolo, gli anni che mi porto sul groppone? Basterà il naturale passare del tempo a rendere la me stessa di oggi bella, in forma e contenta agli occhi invecchiati di quella che sarò? E' una di quelle domande che hanno solo risposte deprimenti.

Risposta 1. Sì, sarò talmente più vecchia e incazzosa che oggi in confronto sembro un'adolescente in gita scolastica.
Risposta 2. No, ho superato l'età in cui si è freschi e ottimisti; presto abbandonerò i 30 per non rivederli mai più. E allora "sorrisi, addio per sempre".

La chiave per salvarsi dal baratro dell'autocommiserazione è proprio nelle foto che hanno scatenato queste cupe riflessioni. Com'era rotondo mio figlio a un anno. Come abbiamo convinto mia madre a mettersi in costume da bagno a giocare a pallone con il nipotino sul prato? E' sempre più difficile distinguere tra me e mia sorella: più passa il tempo più ci assomigliamo. Mille anni fa io cantavo. Sì, da vecchi dovremmo considerare l'ipotesi di trasferirci in Corsica. Stavo bene incinta. Clic.